1998, Emilio Tadini ricorda Alik al Centro Artistico
Mi è venuto in mente un episodio terribile, una cosa che mi ha raggelato il sangue [ridacchiando ironico].
Una volta eravamo nello studio di Nespolo, credo, e c’erano seduti al tavolo un certo numero di persone che facevano dei discorsi molto posati, molto seri, eccetera. A un certo punto, mentre la cosa stava quasi andando sul patetico, ho sentito dietro di me il suono di un violino: mi sono voltato, come tutti del resto, ed era Alik che accompagnava gli oratori, distruggendo naturalmente tutto l’effetto, con il suono di questo violino.
Questa cosa era tipica di Alik, mi ricordo che quando si era insieme, si faceva qualcosa “Questo lo fa Alik”…“No, no, no, che Alik fa casino!”, perché, infatti, lui era veramente un casinista nato. Perché lo dico? Perché nonostante tutto, tra il suo essere veramente casinista nella vita quotidiana e le sue sculture c’è un nesso, io credo abbastanza importante. Adesso cerco di spiegarmi, detta così, sembra un po’… . Io credo che i punti più alti, davvero, del lavoro di Alik siano, questa è una mia opinione, le primissime cose, quelle che ci sono giù [nel giardino del Centro, n.d.r.], le avventure di Gustavo B, questi omini […] dietro vetri, in labirinti, molto squallidi, terribili, che in quel momento, secondo me, erano veramente una delle grandi proposte, non soltanto della scultura, ma della cultura occidentale.
Se voi andate a vedere il testo di Beckett, che non a caso aveva come unica scenografia nella prima un albero di Giacometti, si vede che le sculture di Alik in qualche modo anticipano quei temi che poi sarebbero stati di tutta la grande scultura occidentale contemporanea. Quelle piccole cose di Alik sono veramente straordinarie e, in qualche modo, se ci pensate, sono l’esatta radicale contraddizione della scultura come plastica.
Pensiamo a Brancusi. Perché Brancusi non è colui che apre una nuova strada alla scultura, ma è colui che chiude trionfalmente, ma definitivamente, una certa idea della scultura? Perché io credo che la scultura come plastica pura, come la pensava Brancusi, era davvero l’unica scultura possibile in un mondo in cui le certezze dei valori, fondati nel futuro, nella trascendenza o comunque in qualche altra parte, era sicura. Se si aveva una teoria del mondo sicura, si poteva rappresentare in forma scultorea questa ideale perfezione e stabilità delle cose.
La scultura di Alik radicalmente contraddice questo, come, se ci pensate, nessuno in questo secolo, neanche Giacometti, neanche quel grandissimo scultore che è Giacometti., secondo me, e che anche lui è uno che viene dopo Brancusi e sovverte l’idea della scultura, ma l’idea di Alik andava, secondo me, in quegli anni ancora più avanti. Se voi vedete queste piccole sculture, questi piccoli omini chiusi in questo ambiente desolato e sconquassato, vedete che è una lettura di quegli anni straordinaria.
Tutta la carriera di Alik poi accumula una serie di capolavori, bisogna riconoscerlo. Ma le ultime cose, ma anche quelle del periodo di poco precedente, sono ancora più avanti in questo senso.
Perché? Perché io credo che Alik si sia reso conto di questa …: è uno dei pochi artisti che è stato in grado usare, di utilizzare certi strumenti che la cultura contemporanea ci ha messo a disposizione e che noi facciamo fatica ad usare fino in fondo. La cultura contemporanea, in qualche modo, secondo me, ci mette nelle condizioni di riconoscere davanti a noi il niente, noi agiamo nel panorama del niente, nel luogo del niente. Che cosa vuol dire? Che agiamo in un luogo, dove non esistono più valori fondati.
E, se ci pensate, e ve lo ripeto, i valori erano sempre fondati, mai nella storia della filosofia i valori sono stati fondati qui, adesso. Sempre, nonostante tutto, la cultura ha supposto valori fondati o nel passato, […], (“non adesso, ma una volta sì”) o nel futuro, il mito dell’utopia politica (“non adesso ma in futuro…”), oppure nella trascendenza, nella trascendenza c’è la radice dei valori. La cultura contemporanea ci mette in condizione di sapere che non è vero, di sapere che i valori non esistono e che nel panorama del niente finalmente noi abbiamo la responsabilità e la coscienza di avere la responsabilità davvero di fondare i valori. Alik era veramente uno dei rarissimi artisti di questo secolo, non so quali altri, Beckett dicevo prima, che si rendeva conto di questa presenza del nulla e che però lì, nonostante tutto, ricominciava il lavoro di ricostruzione, di ristrutturazione dei valori.
Allora Alik, evidentemente, non poteva lavorare con un’immagine, plastica, scultorea che definisse nella forma la sicurezza di un’idea e di un sistema di idee, Alik doveva lavorare con i frammenti e guardate che questa sua straordinaria capacità di assemblare questi frammenti e di riportare, nonostante tutto, un ordine che li teneva insieme, è davvero secondo me non soltanto un grandissimo contributo alla storia della scultura di questo secolo, ma è un contributo alla storia della nostra cultura, della nostra […], addirittura, della nostra capacità di vivere giorno per giorno, disponendo i frammenti che noi abbiamo a disposizione effimeri, complicati, ambigui, ridisponendoli ma di continuo, ma di continuo, con responsabilità, con un lavoro che continua e non può fermarsi, ridisponendoli in una possibile struttura.
Ecco perché io credo davvero che questo disgraziato suonatore di violino fosse un grande scultore.